Alla fine di tutto, restano le lacrime e l’abbraccio al poliziotto che lo ha arrestato. Cristiano Doni ha appena concluso l’interrogatorio davanti al gip Guido Salvini e al pm Roberto Di Martino, quando si alza dalla sedia ha un gesto istintivo: scarica la tensione tra le braccia di chi lo aveva condotto verso l’incubo. Un po’ come avviene in un campo da calcio, quando al termine della gara ci si scambia la maglia con un avversario. Questa «partita» Doni l’ha persa scegliendo di giocarla nel modo migliore: ha collaborato con i magistrati, raccontando dopo sei mesi di «non ho fatto nulla» una verità diversa. Una verità che cancella di fatto il calciatore, ma apre una strada meno gravosa all’indagato: al processo potrebbe dover rispondere «solo» di frode sportiva, mentre è probabile che gli stessi inquirenti decidano di non contestargli l’associazione per delinquere.
Le ammissioni «Sì, sapevo della combine di Atalanta-Piacenza. Ho dato il mio assenso e ho scommesso per interposta persona. È vero, la stessa cosa ho tentato di fare anche per la sfida con l’Ascoli. Ma sono tutte iniziative personali, non faccio parte di nessuna organizzazione e mai nessuno mi ha contattato. E poi la società non sapeva nulla e neppure sono a conoscenza di qualunque loro tentativo di aggiustare il match contro il Padova». Sono questi i passaggi più significativi fatti mettere a verbale dall’ex capitano nerazzurro. Sa di aver perso la sua partita, ma salva l’Atalanta. Sempre che gli inquirenti non riescano lo stesso a dimostrare un coinvolgimento diretto della dirigenza. In ogni caso, si assume le sue colpe. Come da suggerimento dell’avvocato Pino. Un consiglio avvenuto durante un serrato (e senza sconti) confronto avvenuto prima dell’interrogatorio.
Domiciliari Alle 16 e 40 Doni è entrato nella stanza del giudice per mettere il naso fuori dopo quasi due ore. Il gip Salvini ha apprezzato la linea difensiva scelta dall’indagato. La dimostrazione è in un fatto concreto: al giocatore sono stati concessi i domiciliari (stessa cosa per Carobbio, Benfenati e Santoni), stamani lascerà il carcere di Cremona per passare il Natale con la sua famiglia. Soprattutto potrà riabbracciare la figlia Giulia, 8 anni. Forse l’incontro con la bimba sarà ancora più difficile di quello con il giudice. Ma questa è un’altra storia. Quella di ieri, invece, è incominciata alle tre. Che le cose sarebbero andate in un certo modo, lo si era capito da subito. Doni (molto provato, barba lunga, jeans e giubbotto) arriva al palazzo di giustizia alle 15. Il fermento allerta i cronisti. I poliziotti controllano una stanza e l’avvocato Pino conferma: «Ho avuto il permesso di vedere il mio assistito». Nei giorni scorsi questa richiesta era stata fatta arrivare in via informale al gip: l’incontro serviva a Pino per capire le reali intenzioni di Doni e farsi raccontare i buchi degli ultimi mesi. Solo in questo modo l’avvocato poteva garantire e gestire un «interrogatorio collaborativo». Pino era pronto anche a rimettere il mandato se il giocatore avesse insistito in una linea di negazione. Ecco perché i primi minuti sono stati decisivi. Doni quasi in lacrime ha spiegato: «Avvocato, è vero le ho mentito. Ma avevo timore e speravo di farla franca. Sono stato uno stupido, ma le giuro una cosa: non conosco nessuno zingaro e non faccio parte di organizzazioni. Ho detto sì alle combine perché l’Atalanta ne traeva un vantaggio. Mai e ripeto mai avrei dato ascolto a chiunque mi avesse proposto dei soldi per far perdere la mia squadra. Le scommesse? Beh, ho sbagliato. Che cosa le devo dire… Non riesco a guardarmi allo specchio pensando al dolore che ho dato alla mia famiglia e ai tifosi. So bene che non mi perdoneranno. E li capisco… Sa, la retrocessione in B mi aveva ferito. Ecco perché ho accettato quelle proposte. Vincendo, eravamo sicuri della promozione. Sono stato un co…». Pino ha ascoltato e annuito. Poi ha tracciato la via: «Cristiano, ora andiamo e ti assumi le tue responsabilità. Solo così puoi uscirne in fretta. Non c’è alternativa».
Dai giudici L’inizio non è stato semplice, ma poi l’avvocato ha gestito con tatto la situazione. E Doni ha risposto alle domande. «Ammetto le combine di Atalanta-Piacenza e Ascoli-Atalanta. Non sono a conoscenza di nessun tentativo per la partita di Padova. I soldi a Santoni? Era in difficoltà, ho aiutato un amico… E poi, certo, sapevo che lui era nella mia stessa barca». Minuto dopo minuto l’interrogatorio è filato via liscio. Non si è parlato di altri giocatori e neppure del coinvolgimento diretto di compagni. Gli inquirenti faranno altri accertamenti e di sicuro confronteranno le dichiarazioni. In questa fase nulla è escluso, neppure che altri all’interno della squadra sapessero delle iniziative del capitano. Stessa cosa per la dirigenza. Bisognerà capire se era all’oscuro di tutto nella prima fase (quella operativa), ma anche nella seconda. Se, vale a dire, ha scoperte le magagne del giocatore, ha scelto di coprirlo. Da questo e da molto altro, dipenderà il futuro dell’Atalanta. Quello di Doni è più inquadrato: un processo penale meno invasivo di quello che si poteva pensare e uno sportivo dal verdetto scritto (radiazione). Ecco perché a Cremona i giornalisti hanno assistito all’ultimo scatto dell’ex capitano: quello fatto alla fine dell’interrogatorio per raggiungere, scortato dai poliziotti, la camionetta. Un dribbling riuscito alle foto indesiderate. Non alla giustizia.
Fonte | Francesco Ceniti per La Gazzetta dello Sport
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