Fonte | Giulio Di Feo per Gazzetta dello Sport, Giulio di Feo
«Niente bici, niente playstation…». E allora? «E allora il pallone era la cosa che costava di meno. Giocavo ovunque, per strada, in casa, pure in cucina. E la mamma si incazzava, perché spaccavo tutto». Dalle credenze di casa Farias a Sorocaba fino alle reti d’Italia passa un oceano, ma il concetto non è molto diverso. Perché il piccolo Diego, Farias appunto, si vede che col pallone si diverte da morire. Lo coccola, gli dà del tu, lo shakera con finte improvvise e sta cominciando a buttarlo dentro. Fin qui è il miglior marcatore del Padova, e quando non lo innesca la squadra si innesca da solo. Come in casa della Pro Vercelli, finta e destro sul palo opposto. Primo gol della doppietta e chicca che vale ancora di più visto che a Farias iniziavano ad appiccicare un’etichetta scomoda: bello da vedere, ma non la butta dentro. «Ora però è diverso. Pea e il modo in cui gioca mi aiutano, ma anche in me è cambiato qualcosa. L’anno scorso in area arrivavo, ma la palla non entrava mai, ora sì». I dati lusingano: 11 gol in 81 gare da pro fino alla passata stagione, 4 in 9 quest’anno.
Rewind: cosa c’è tra la cucina e i gol di Padova? «A 16 anni andai a Rio a giocare un torneo per ragazzi, e c’erano anche osservatori italiani. Il Chievo mi vide e mi prese». Tre anni di giovanili, poi la via crucis dei prestiti. Per la prima tappa non cambia città: l’Hellas. «E’ bello giocare in una piazza calda, dove i tifosi si fanno sentire, ed è positivo perché ti abitui. Sono sempre stato bene a Verona, ho tanti amici e ci torno spesso. E quando ho segnato contro di loro, per rispetto non ho esultato». La seconda tappa è più suggestiva: Foggia, Zemanlandia. «Uno diverso dagli altri, con lui si lavora tanto. Ogni ripresa, corsa e i gradoni dello Zaccheria: ci spezzava. Poi capisci che più lavori e più corri, e io la domenica andavo a mille». Il trio d’attacco? Farias-Insigne-Sau. «Bravissimi ragazzi, a volte ci sentiamo ancora. E la loro forza sul campo non devo raccontarla io, si vede. Non a caso hanno svoltato quando hanno cominciato a segnare con costanza. Ecco, qui devo migliorare anch’io per arrivare in alto». Zeman quest’estate aveva fatto anche un pensierino di portarselo a Roma, poi ha optato per svezzare Lopez. Terza tappa: Nocerina, in B. Retrocesso, 5 gol, ma un mare di assist e rigori procurati. Qui Diego, nome e compleanno da predestinato (10 maggio 1990, tre anni esatti da quando un omonimo a Napoli aveva vinto uno scudettissimo e si era ripetuto 11 giorni prima), metabolizza: «Al Sud si sta come in Brasile. Fa sempre caldo, ed è così anche la gente. Ti sta vicina, ti aiuta».
A Padova, quarto prestito targato Chievo, sta arrivando la consacrazione. Non gioca più con la 70 in onore di Robinho («Il mio idolo, l’ho pure conosciuto una sera a Milano. Ora i numeri alti non si possono prendere, e così ho scelto la 10»), ma il look è alla Ronaldo: viso tagliente, brillantoni alle orecchie, capello ingellato. E oltre a gol e fantasia, colpisce la duttilità: «Trequartista, esterno d’attacco, un paio di volte Pea mi ha chiesto di fare il centrocampista. L’importante è giocare, e lo faccio per me e per gli altri. Non me ne frega niente di fare 50 gol se la mia squadra è ultima. Siamo sulla buona strada, tre vittorie di fila e andiamo a Bari a giocarci la quarta. Non voglio parlare di A, dico che siamo forti e ce la possiamo giocare. Come Pea ci ripete sempre: “Se ci credete, vincete”».
Fonte | Stefano Volpe per Il Mattino di Padova
Cosa può disturbare un periodo così magico? L’attenzione mediatica. Quella Diego Farias proprio non la sopporta. Interviste, apparizioni in tv, chiamate in radio. Cose che, quando giocava per le strade di San Paolo, nemmeno immaginava. Ma è proprio partendo da lì che il nuovo idolo biancoscudato, ha voluto raccontare la sua storia. «Sono nato alla periferia di San Paolo, in un quartiere molto povero. Non ho avuto un’infanzia facile. Da piccolo giocavo per strada, mettevo le ciabatte a terra per fare le porte e arrivavo a casa con i piedi tutti rovinati. Non avevo la Playstation, solo un pallone. I miei si sono separati quando avevo 11 anni, mia madre è di Pernambuco, nel nord del paese, e quando mia nonna è morta non è riuscita ad andare al funerale. Costava troppo». Il calcio era l’unica via per uscire dalla povertà? «Mi sono sempre detto: o faccio il calciatore o faccio il calciatore. La prima scuola calcio che ho frequentato non era vicina a casa, ma non avevo i soldi per permettermi l’autobus, così ogni giorno facevo un’ora di bicicletta, tra andata e ritorno, per allenarmi».
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Ha una squadra in cui sogna di giocare? «In Europa no, mi basterebbe arrivare, se riesco, ad alti livelli. Il sogno è il Santos». Dove c’era il suo idolo Robinho. Anche se il suo nome ha un’altra origine. «Mio padre voleva chiamarmi Diego Maradona, ma mia madre lo fermò. Bastava solo Diego, dedicato ad un mito del calcio». Del Pibe de Oro adesso porta anche il numero. «Volevo il 70 di Robinho ma con le nuove regole non potevo. La squadra, per prendere in giro Milanetto voleva scippargli il dieci per darlo a me. Poi quando Omar ha lasciato, l’ho preso io».
L’avvio a Padova non è stato semplice. «All’inizio sembrava non sapessi giocare. Il mister mi ha chiedeva: che succede? Ma non lo sapevo. Pea mi ha detto di stare tranquillo e a Livorno c’è stata la svolta. Sono entrato subito in partita, poi è andata sempre meglio e ora non mi fermo più». Buona parte del merito, quindi, è del mister. «Mi trovo benissimo con lui, parla tanto con i giocatori e ti aiuta in tutti gli aspetti del gioco». Che differenze vede con l’altro suo maestro, Zeman? «Sono diversi, Pea fa molta tattica, il Boemo lavora di forza e corsa. Sono stato sei mesi con Zeman, a Foggia, e mi sono trovato a meraviglia, anche se ci faceva sudare troppo. L’allenamento del lunedì era massacrante, con tutti quei gradoni. Tornavo a casa alle sette e mi addormentavo subito. Lo scorso anno mi voleva anche a Pescara ma poi non si misero d’accordo le società». Magari lo ritroverà in A. «Il mio obiettivo è fermarmi più a lungo in una squadra. Ho peregrinato molto, ora vorrei lasciare il segno per tanti anni con una stessa maglia. Che potrebbe essere quella del Chievo (proprietaria del cartellino ndr) o quella biancoscudata. A Padova sto benissimo». Se continua così per trattenerla ci vorrebbe la Serie A. «Se continuiamo di questo passo resteremo sempre lì, incollati alle zone alte. Potrebbe essere il secondo come il sesto posto. Con la squadra che abbiamo credo si possano raggiungere grandi risultati». Se poi lei continua a segnare gol meravigliosi come a Vercelli… «È stata la mia prima doppietta in B che dedico a Cuffa, persona speciale. Ma di gol ne ho fatti di più belli: il migliore con l’Hellas contro la Ternana. Erano gli ultimi minuti, il portiere avversario era uscito dalla porta, così Rafael, il nostro numero uno, ha preso palla nella sua area e voleva andare a far gol. Poi ha preferito passarmela, io non ci ho pensato molto e con il portiere fuori dai pali ho segnato da 40 metri». Sa che piace anche alle donne? «Sono contento, ma credo sia solo perché sono un calciatore. A Verona ho convissuto tre mesi con una ragazza, facevo la vita da sposato. Non fa per me: meglio single».
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