Da traghettatore a trascinatore, da precario a punto fermo dell’ambizioso Padova. Il 2011 di Alessandro Dal Canto è un frullatore di emozioni che non si è ancora fermato.
Sulla schiena aveva una scadenza precisa: 3-4 giorni…
«E invece sono ancora qui. E’ stato un anno pazzesco, abbiamo raggiunto la finale playoff, un obiettivo che sembrava impensabile. Ora ci riproviamo».
Cosa significa essere l’allenatore più giovane di A e B?
«Sto ancora cercando di capirlo: è accaduto tutto così in fretta, in poche ore dalla Primavera alla prima squadra…».
Prima partita, 19 marzo: Pescara-Padova 0-2. Avrebbe dovuto essere anche l’ultima.
«Foschi mi aveva avvertito: dopo Pescara, si vedrà. Poi ha deciso di darmi fiducia, ha rischiato affidandosi a un giovane senza esperienza. Però lui ha trent’anni di calcio alle spalle e devo ringraziarlo. Ricordo ancora la semifinale col Varese, quel bellissimo 3-3. Era felice perché mi vedeva felice».
Seconda partita, 26 marzo, Padova-Atalanta 1-1: secondo i pm il pareggio era già deciso.
«E invece è stata una partita vera e sfido chiunque a dire il contrario. Ricordo che nel finale abbiamo un avuto un’occasione incredibile con De Paula. Girano solo voci, illazioni, ipotesi. Ma avete sentito un tesserato del Padova parlare di quella partita?»
Quanto conta la gavetta?
«Tanto, ma non è tutto. Sono arrivato in B senza vie traverse, saltando tutti i passaggi e a campionato iniziato (al posto di Calori, ndr). Ma l’esperienza me la sono fatta sul campo. Poi, come ovvio, ci vuole un po’ di fortuna».
Mai rimpianto di avere vent’anni di più?
«Sinceramente no. Non sono uno che urla, vivo sereno. Ho fatto molti errori, ma ho cercato di rimettermi sempre in discussione. Così nel gruppo si è creato un feeling speciale».
Il vantaggio di avere un allenatore coetaneo…
«Certo, ma c’è l’altra faccia della medaglia: proprio perché sono giovane ho margini di errore molto ridotti».
I giocatori le danno del tu?
«No: giusto così, amicizia ma pure rispetto dei ruoli. Con l’eccezione di Marcolini e di Milanetto che per evitare l’imbarazzo di scegliere evita di chiamarmi. Come facevo io con Iachini quando giocavo a Vicenza».
Il caso di Mangia dimostra che un allenatore giovane rischia più di uno vecchio?
«In generale tutti questi esoneri dicono che c’è troppa frenesia e manca la pazienza. Si parla tanto di progetti e poi…»
Padova non è Palermo, Cestaro non è Zamparini.
«Più che di persone e di società, parlerei di obiettivi e pressioni fortissime. Che ci sono se punti all’Europa, alla A o devi salvarti. Conosco bene Mangia, stiamo facendo insieme il Supercorso: ha avuto un’esperienza simile alla mia, gli servirà comunque».
Un allenatore di 36 anni è costretto ad avere un modello?
«E perché? Ho una mia idea di calcio bene precisa, ho avuto tanti allenatori bravissimi, ho cercato di copiarli e poi fare a modo mio».
A chi si sente più vicino?
«A Mandorlini, che ho avuto a Vicenza, per come prepara la partita pensando da subito all’avversario. Non fa esercitazioni tattiche per abitudine».
Zeman?
«Ha un’idea di calcio molto forte, che non è la mia. Ma è unico, imitarlo è inutile e rischioso».
Fonte | Guglielmo Longhi per La Gazzetta dello Sport
No comments
Commenta per primo questo articolo